Piadina a Lampedusa (e Sangiovese a Linosa)
Guida atipica di Lampedusa scritta da una romagnola che ci ha lasciato il cuore
CHI SONO
Cesenate DOC, di quelle con la zeta strascicata e la esse molto importante. Cresciuta a spiagge, piadina e Sangiovese, nel 2011 visito Lampedusa per la prima volta. Scatta immediato il colpo di fulmine. Ci ritorno nel 2017, per due settimane. Il pezzetto di cuore lasciato lì, fra sabbia e scogli, è ancora più grosso. Decido, allora, di scrivere questa guida atipica per quanti ancora non conoscono questo angolino magico d’Italia – o lo conoscono solo da giornali e televisione e quindi non lo conoscono – per quelli che ci sono già stati, per quelli che ancora non ci sono stati ma ci andranno, e soprattutto per quelli che dicono….”non ci metterò mai piede!”.
COSA NON TROVERETE IN QUESTA GUIDA
“Piadina a Lampedusa” è una guida atipica, perché nasce dalla mia esperienza diretta nelle Pelagie: è estemporanea e personalissima, nata sull’onda di un viaggio, molto artigianale e – avvertenza importante – non contiene tutto: non troverete, cioè, le informazioni che potete reperire un po’ ovunque. Vedrete Lampedusa e Linosa con i miei occhi, e anche se la miopia mi costringe a portare lenti assai spesse, spero di potervi trasmettere anche solo in piccola parte la bellezza di ciò che ho visto. Per me, queste due piccole isole sono diventate “O’ Scià”, il mio fiato, il mio respiro, come dicono qui. Un luogo dell’anima, che è impossibile dimenticare.
I Capitoli di Piadina a Lampedusa (e Sangiovese a Linosa) – Guida atipica di Lampedusa scritta da una romagnola che ci ha lasciato il cuore:
- RAPIDO FLASHBACK – LAMPEDUSA 2011
- IL KIT DEL VIAGGIATORE: COSA PORTARE, COSA LASCIARE, COME GIRARE, COME COMPORTARSI
- A SPASSO (E A NUOTO) PER L’ISOLA
- ARTE E STORIA A LAMPEDUSA
- LAMPEDUSA E LA SUA GENTE
- LINOSA: IL PARADISO ALLA FINE DEL MONDO
- TURISTA PULITO, TURISTA GRADITO: QUALCHE AVVERTENZA PER UNA VACANZA A MISURA DI ISOLE
CAPITOLO I
RAPIDO FLASHBACK – LAMPEDUSA 2011
Aprile 2011, Cesena, Emilia Romagna. Uno di quei giorni in cui lavori, fai una pausa, riprendi a lavorare, guardi fuori della finestra la primavera che avanza un po’ a stento fra una pioggia e l’altra. Capita. Si inizia, con la collega-amica storica, a parlare di ferie, a dire “organizziamoci per tempo”, per evitare di assottigliare il portafoglio più del dovuto. Le vacanze estive, per me che abito in un posto adorabile ma dove nebbia e cielo grigio la fanno da padroni per mesi, le vacanze estive dunque, devono includere due elementi fondamentali: sole e mare. Tanto sole e tanto mare.
Era il periodo, quello, in cui di Lampedusa si sentiva parlare un giorno sì e l’altro pure e non in maniera troppo positiva: il regime di Gheddafi scricchiolava, gli sbarchi sull’isola avvenivano a ritmi vertiginosi. I giornali parlavano di una situazione al limite dell’esplosivo, l’isola affrontava un’”emergenza biblica”. Con una premessa del genere, Lampedusa sarebbe dovuta essere l’ultimo posto da scegliere. Eppure, questo baluardo estremo d’Italia, pezzettino d’Africa galleggiante nel Mediterraneo, mi aveva sempre affascinato, come mi affascinano un po’ tutte le terre di confine. Iniziai a cercare delle foto su “Google immagini” (e dove sennò?). Ricordo ancora la prima che trovai: non I Conigli, ma le barche volanti a Tabaccara. Volavano davvero sull’acqua, come sospese in mezzo a vetro liquido. Mai visto niente del genere.
Quattro mesi dopo, io e tre amici mettevamo piede, per la prima volta, a Lampedusa.
Sono ormai passati anni, e anche se i ricordi di quel primo viaggio iniziano a sbiadire, alcune sensazioni sono rimaste intoccate nel tempo, una su tutte: la luce. Quando atterri a Lampedusa, ti accorgi subito che la luce è diversa da quella che hai lasciato. Più calda, tagliente anche con le nuvole. A Lampedusa, ci sono giorni in cui il sole sembra essere dappertutto e in nessun posto, riflettendosi su mare roccia case e – sparuta – vegetazione.
Dopo quel viaggio, negli anni successivi, ce ne sono stati tanti altri, dentro e fuori l’Italia, ma la nostalgia per l’isoletta, per la sua sorella vulcanica e per la luce non mi ha mai lasciato. Così, nel 2017, sei anni dopo, nel periodo vacanziero peggiore dell’anno – pieno agosto – ho ripreso l’aereo dal nordest in direzione sud. Come in tutte le storie d’amore a distanza, un po’ di timore c’era: mi sarebbe piaciuta ancora così tanto? Oppure il tempo, i cambiamenti, mi avrebbero regalato una delusione?
Se ho scritto questa guida, sapete già la risposta.
CAPITOLO II
IL KIT DEL VIAGGIATORE: COSA PORTARE, COSA LASCIARE, COME GIRARE, COME COMPORTARSI
Cosa è indispensabile?
È presto detto: creme solari in abbondanza, doposole in abbondanza, balsamo per capelli in abbondanza, cappellino da spiaggia. Il sole di Lampedusa, pare scontato dirlo, in piena estate scotta di brutto, e se non partite con una buona abbronzatura di partenza (come quella che si ottiene nella mia Romagna, ad esempio), sarà il caso di proteggersi molto bene. Portatevi anche un paio di scarpette da scoglio, ideali nelle spiagge rocciose. Per medicine e medicinali vari, Lampedusa ha una farmacia molto fornita, quindi – a meno che non prendiate farmaci specifici di difficile reperibilità – non avrete problemi. Sempre in tema medico, un discorso a parte merita il pronto soccorso lampedusano: purtroppo, è poco attrezzato e – pensato per una popolazione residente di 4.000 anime – fa davvero fatica a stare dietro a 40.000 presenze estive, senza contare che i vari specialisti sono a Lampedusa solo un giorno a settimana, con prevedibili code chilometriche, quando va bene. Per quanto possibile, cercate di evitare situazioni di pericolo, come esporsi al sole in maniera selvaggia o guidare alla Valentino Rossi per le strade dell’isola.
Come ti vesti? Come mi pare! Il non-dress-code lampedusano
Lettura
consigliata
Ci sono posti, dove, necessariamente, l’abito fa il monaco. Ricordo il mio palpabile disagio su una spiaggia di Cannes a luglio: tutte le ragazze – magrissime, ci mancherebbe – portavano kaftani dall’aria costosa, o camice maschili con le maniche arrotolate. Tutte avevano enormi occhiali da sole con logo ben in vista, cappelli di paglia e chiome perfette nonostante il caldo. Io, in tipica tenuta da romagnola al mare – canotta colorata, pantaloncini da surf e infradito di gomma – ero un’aliena. Senza contare che a nessuna di queste tizie importava quello che per me è il motivo fondamentale per cui andare in spiaggia, ossia prendere il sole: passavano la giornata fra selfie, occhiate distratte tutt’intorno, secchielli di champagne, mentre io cercavo disperatamente di girare il mio lettino in direzione sole. Impresa contrastata da tutte le leggi della fisica, visto che a Cannes i lettini sono talmente appiccicati l’uno all’altro da formare un unico letto matrimoniale, così che ogni spostamento, anche di pochi centimetri, è materialmente impossibile. Come dire, la scomodità del lusso. Lampedusa, è tutto il contrario: fa caldo, molto caldo, e si sta al mare, molto al mare. E l’acqua è talmente bella che non potrete fare a meno di passare a mollo la maggior parte della giornata. Non importa se non sapete nuotare, perché in quasi tutte le spiagge l’acqua ha qualcosa in comune col mio Adriatico: digrada dolcemente, di modo tale che anche chi è particolarmente imbranato e pessimo nuotatore come me, non avrà problemi. Questo significa che, dopo 48 ore, i vostri capelli avranno assunto tutte le fogge possibili, e ricorrerete a mollettoni ed elastici come se non ci fosse un domani. Gli orridi mollettoni da doccia, quelli che a casa non mettereste neppure per portare il cane a fare pipì a mezzanotte, diventeranno il vostro pane quotidiano, Scordatevi la messa in piega, tanto il giorno dopo sarete di nuovo in acqua. E soprattutto, vestitevi come vi pare: Lampedusa non guarda all’outfit, guarda a voi. Questo non significa, ovviamente, che non sia necessario decoro – lo dice il buon senso – ma semplicemente che, se a Cannes l’abito fa il monaco, a Lampedusa, l’abito fa l’abito. E basta.
E per spostarmi?
Ve lo dico subito, senza tanti giri di parole: a Lampedusa, un mezzo di trasporto risulta indispensabile.
La cosa può sembrare scontata, ma non lo è affatto: ho conosciuto turisti che – forse poco documentati – non avevano noleggiato niente e si facevano portare in spiaggia dal pullmino dell’hotel, o usavano l’autobus pubblico, il che, ad agosto, è sicuramente un’esperienza. Erano stufi marci, e si capisce: Lampedusa è piccolina, vero, ma 20 Km quadrati non la rendono certo così minuscola da poter essere girata tutta a piedi dalla mattina alla sera, a meno che non siate maniaci della corsa estrema con 40 gradi all’ombra.
Le spiagge, poi, non sono sempre una vicina all’altra – ad esempio, Mar Morto e Conigli, diversissime e bellissime, si trovano sui lati opposti dell’isola, e questo è solo un esempio. Spesso non si passa la giornata intera sulla stessa spiaggia, ma la mattina in una e il pomeriggio in un’altra. Oppure, a una certa ora, si ha voglia di tornare a casa, darsi una rinfrescata e prendere un aperitivo. Oppure prendere un aperitivo a O’ Scià, nel centro dell’isola, senza rinfrescata. Non importa. Tutti questi spostamenti esigono un veicolo, o non vi godrete affatto la vacanza e vi sentirete un po’ dei pendolari in ciabatte e pareo.
Sono tre i mezzi di trasporto in voga:
La mehari: è una sorta di piccolo fuoristrada da deserto, aperto, perfetto se volete sentirvi un po’ Lawrence d’Arabia motorizzati. Pro: è molto carino e perfetto per una gallery su instagram con hashtag #lawrencedarabiapuòaccompagnaresolo, ma i pregi finiscono qui: durissimo da parcheggiare, aperto su ambo i lati, perfetto per ingoiare vagonate di polvere (e a Lampedusa, la polvere è un optional che non manca mai). Fate voi.
Lo scooter: di sicuro meno complicato da guidare della mehari e comodissimo in agosto, richiede prudenza. A Lampedusa la viabilità è, per usare un eufemismo, “disinvolta”: scordatevi linee di stop, mezzeria e altri lussi. Semafori, men che meno. La segnaletica orizzontale è un optional, così si guida un po’ alla sperindìo, con imprecazioni annesse. Le condizioni delle strade, poi, possono ricordare in alcuni tratti, certi scordi televisivi di Beirut: cbuche, sassi, altre buche, altri sassi, il tutto guarnito dalla solita polvere in quantità variabile. Evitiamo incontri ravvicinati col selciato.
Il quod: mi sarebbe piaciuto tantissimo prenderlo, ma il tipo dell’hotel me l’ha vivamente sconsigliato in quanto “capottano”. Lo ammetto, mi sembrava una sciocchezza, poi ne ho visti un paio ruote all’aria a bordo strada, per cui ho lasciato perdere.
La macchina: è il mezzo meno fascinoso, ma anche il più comodo per chi non ha dimestichezza con le due ruote. Dimenticatevi macchine epiche: ci sono Punto cabrio dell’anteguerra, Pandine, ancora Punto. La nostra macchina, prenotata all’ultimo minuto, prometteva bene: un’Opel Meriva più che dignitosa, addirittura completa di aria condizionata funzionante. In una serata caldissima e particolarmente umida, col vetro coperto di umidità e polvere, abbiamo avuto la brillante idea di mandare i tergicristalli per pulire un po’. Mando la leva. Nessun segno di vita. Rimando la leva. Idem. “..’ccidenti, son rotti”. La mia amica si sporge dal finestrino: “Non è che sono rotti. Non ci sono proprio”. Morale della favola? È vero che a Lampedusa piove pochino per non dire nulla, ma se la vostra auto non ha tergicristalli, munitevi di carta assorbente e vetril. Posso garantirvi che vi servirà.
La bicicletta: Se avete un animo ecologista e buone gambe, anche girare l’isola in bici è un ottimo modo per scoprirla. Non ci sono salite particolari, l’unico problema, in piena estate, è il caldo, ma se uno è abituato…
CAPITOLO III
A SPASSO (E A NUOTO) PER L’ISOLA
Ti prendo e ti porto via. Anzi, in via Roma
Quanti paesini da visitare ci sono a Lampedusa? Facile: uno, Lampedusa, così non vi confondete. La vita si concentra qui, in questo mucchietto di case squadrate affacciate sul mare, con un piccolo porto, una bella spiaggia cittadina con acqua caraibica (Guitgia), e una via principale – Via Roma, appunto – che è il cuore pulsante di (quasi) tutto: ristoranti, bar, birrerie, negozi di abbigliamento, oggettistica, alimentari, bancarelle. Durante il giorno, col sole rovente, il caldo e le spiagge invitanti, c’è poca gente e può apparirvi un po’ desolata. Dopo il tramonto, tutto si anima.
Vi va di fare due passi con me? Se la risposta è “sì”, seguitemi.
Dopo un pomeriggio passato a prendere il sole, nuotare e camminare (perchè a Lampedusa si cammina eccome), la fame si fa sentire. Dopo aver preso un aperitivo a O’Scià Club, nel centro dell’isola, ed essersi persi in un tramonto mozzafiato, cosa c’è di meglio di un bel piatto di calamari ripieni, teneri come burro? O una soffice caponata? O pasta con gli anellini, fritto di pesce, insalata di polpo? Da Martorana c’è solo l’imbarazzo della scelta: scordatevi il posto di lusso, è una gastronomia self service: si va al bancone, si scelgono i piatti, si paga e col proprio vassoio ci si accomoda a uno dei tavolini esterni, dove si mangia guardando il passeggio della gente.
Dopo aver riempito la pancia, forse – e sottolineo forse – c’è ancora un piccolo spazio per il gelato. Risaliamo di poco il viale e arriviamo alla Gelateria O’Scià: fico caramellato e cioccolato fondente mandano a pallino le ultime velleità di dieta. Si può consumare al tavolo, o prendere cono/brioche/coppetta da passeggio.
Riempita la pancia oltre ogni limite disponibile, mettendo a tacere quella vocina interiore che ci fa sentire come probabili protagonisti della nuova stagione di “Vite al Limite”, è l’ora dello shopping: lungo Via Roma – e alcune stradine perpendicolari – c’è solo l’imbarazzo della scelta. Fra artigianato di ottima qualità, abbigliamento, complementi d’arredo per la casa, ho di che sbizzarrirmi. Inizio comprando una calamita da frigo a forma di barca da Pesci Pazzi: non è un negozio, ma un’Ape Piaggio piazzata a inizio viale, tutta colorata, dove due ragazzi vendono le loro creazioni, tutte fatte con materiali di recupero e rigorosamente “made in Lampedusa”. Se non volete oggetti in serie, questo è il posto giusto.
Proseguo con una maglietta da MR Sirio, che vende principalmente splendidi oggetti d’artigianato: bianca, con tre piccole meduse di velluto disegnate sulla spalla. Non può poi mancare il tipico braccialettino lampedusano, composto da tante tartarughine colorate. Il mio l’ho comprato da Il Mare addosso, dove hanno tantissimi oggetti sfiziosi. Come regalo per mamma, scelgo invece un modello più elegante in argento da Aurum.
Proseguiamo verso il mare, e lasciamo una piccola offerta a Il Cuore Ha Quattro Zampe Onlus, associazione isolana che si occupa dei randagi di Lampedusa e che ha il suo banchetto, completo di pelosi, sulla destra. Non sono pochi i turisti che tornano a casa con un amico canino, li vedrete in aeroporto.
Siamo quasi alla fine del viale, e c’è il tempo per un ultimo acquisto atipico: un romanzo da Antonio Lo Vasco, scrittore palermitano che – ne parlerò poi – ha deciso di autopubblicarsi e vendere i suoi lavori direttamente. Scelgo il romanzo “Condoglianze..signora” , una storia avvincente di peccato (mafioso) e riscatto. Lo finirò in due giorni.
La passeggiata finisce dirimpetto al mare: uno sguardo alle barche e al porto sottostante, ed è ora di bere qualcosa ascoltando musica: se la parola “piano bar” già da sola vi fa sbadigliare peggio di un film coreano al Festival di Cannes, se pensate a uno di quei tristissimi locali da riviera con le luci al neon e un repertorio da balera anni ottanta, siete completamente fuori strada. I piano bar di Lampedusa sono in realtà dei veri e propri mini-concerti, con musica per tutti i gusti e musicisti davvero di talento (per dirne una, un certo Mario Biondi, tizio con una voce niente male, ha iniziato la sua carriera qui). Scegliamone uno – il bar più a monte ha un repertorio più “rock” – ordiniamo una birra artigianale “Epica” con l’occhio di Polifemo disegnato sull’etichetta, e perdiamoci in musica e chiacchiere. Come niente si fanno le due, e la serata volge al termine.
E i nottambuli?
Possono stare tranquilli, Lampedusa offre anche discoteche e serate di livello; ad esempio, questa estate 2017 è stato ospite il dj Tommy Vee al Cala Croce Summer club e deduco sia piuttosto famoso, ma – vuoi per la mia ormai non più giovanissima età, vuoi perché anche in anni migliori (anagraficamente parlando) – non ero una fanatica di discoteche & affini, non posso darvi grosse informazioni.
Di conigli, pulcini ed altre meraviglie (marittime)
Lettura
consigliata
Ed eccoci al motivo per cui tutti vengono a Lampedusa: il MARE, scritto così, con tutte le lettere maiuscole, quello da cartolina, quello che metti come sfondo del computer illudendoti di averlo davanti al posto del mare di scartoffie, quello che se lo posti su instagram non hai bisogno di filtri perché è già perfetto così, con tutti i colori che si possono immaginare e anche qualcuno di più. Tornare ai Conigli, sei anni dopo, è stata un’emozione: circa a metà del sentiero di accesso, c’è una balconata naturale dove è impossibile non fermarsi: la vista spazia da La Tabaccara con le sue acque di vetro, all’Isola dei Conigli, alla spiaggia e al promontorio che la separa da Cala Pulcino. Non ci sono barche, perché è vietato attraccare: all’orizzonte, mare e cielo si confondono senza che nulla spezzi il loro abbraccio. La luce soffice del mattino lascia lentamente spazio a quella tagliente del mezzogiorno, e poi ai colori caldi del tramonto. Ho immaginato spesso come debba essere il cielo stellato visto da qui, ma dopo le sette e mezzo di sera, la spiaggia va liberata, ed è giusto così: Isola e Spiaggia dei Conigli sono infatti Riserva Naturale Integrata, presidiata dai giovani e bravissimi volontari di Legambiente. Scendendo in spiaggia, alla vostra destra, seminascosta fra roccia e cespugli, noterete una bellissima costruzione in pietra a vista. Questo in passato fu il buen retiro di Domenico Modugno, che volle costruirsi casa davanti a quella che chiamava – a ragion veduta – “la piscina di Dio”. Domenico Modugno è morto proprio qui, davanti a questa spiaggia, il 6 agosto del 1994. Quello stesso mattino, aveva aiutato alcuni volontari WWF a rimettere in mare una tartaruga spiaggiata. Una curiosità sul nome: pare che qui, un tempo, vi fosse una enorme colonia di conigli, finita poi arrosto per il troppo sole. L’altra versione è che di conigli, qui, non ce ne siano mai stati, e questo strano nome derivi dall’arabo “rabit”, che vuole dire “istmo”, “unione”.
Passato il promontorio dei Conigli, e proseguendo verso l’interno, troverete l’altra piscina di Dio, o della divinità che preferite. Scordatevi le comodità: per raggiungerla, bisogna percorrere un sentiero acciottolato e in discesa che passa attraverso un canyon, di circa 3,5 km. Molti lo percorrono in infradito, ed è una sciocchezza, perché ci sono sassi anche aguzzi. Munitevi di scarpe da tennis, o sandali con suola che abbia un buon grip – anche se sarebbe sempre meglio tenere il piede protetto, per evitare tagli o sbucciature. A un certo punto, il canyon di roccia, alberi e cespugli si aprirà, per lasciarvi intravedere la linea del mare stagliarsi contro il bianco delle rocce. Eccovi a Cala Pulcino, così chiamata perché un tempo qui viveva una colonia di polli selvatici, poi divorati dagli abitanti dell’isola, particolarmente voraci. Ok, la pianto con le sciocchezze: in realtà, non ho idea del perché si chiami così, ma ho ben chiaro il perché mi piaccia da impazzire.
Perché è bellissima.
Cala Pulcino non ha sabbia, ma grossi ciottoli rotondi. Non ha – ovviamente – bar o simili, quindi anche in questo caso i viveri sono fondamentali. Portatevi una bella scorta d’acqua, se non volete morire disidratati. Vi ripagherà della fatica un mare caraibico in un contesto da film western: immergendovi, e voltandovi verso la spiaggia, vedrete acqua azzurra, roccia e i costoni poderosi del canyon. Se poi avete ancora voglia di camminare, potete percorrere il sentiero sul promontorio alla vostra sinistra e ritrovarvi ai Conigli. Fatelo sempre con scarpe adatte.
A Lampedusa, le piscine non sono finite. Perché accanto a quelle di azzurro cristallino, ci sono poi quelle dove a dominare sono tutte le sfumature del blu. Ad esempio, Cala Mar Morto: questo curioso nome deriva dal fatto che – ok ok, non vi racconto una sciocchezza – anche nelle giornate dove il maestrale prende impietosamente a schiaffi l’isola, qui l’acqua è sempre, come cantava Vianello, una tavola blu. Piatta e calma. Ha fondali bellissimi per chi ama lo snorkeling, ed è circondata da scogli bassi e piatti, con qualche supporto fisso per piantare gli ombrelloni.. Se poi non ne volete proprio sapere di appoggiare il sedere sulla roccia, la vicinissima Cala Creta è attrezzata di tutto punto. Meglio di così…
E le altre spiagge?
Ce ne sono finchè volete, e oltretutto, attrezzate di tutto punto con lettini ed ombrelloni, così, giusto per i nostalgici delle comodità romagnole: dietro l’aeroporto troverete, in ordine di apparizione Cala Pisana, Cala Uccello, Cala Francese, Sciatu Persu, Cala Maluk. È molto carina la storiella che si cela dietro al nome Sciatu Persu, che in dialetto isolano significa “fiato sprecato”: si dice che da quelle parti vivesse una coppia il cui rapporto era particolarmente “frizzante”: narrano le leggende che lei non volesse proprio saperne di ascoltare le ragioni del marito, e che lui, alla fine, estenuato, le ripetesse “parlare con te è sciatu persu”, ossia appunto “fiato sprecato”. Purtroppo non conosciamo la versione della moglie e non sapremo mai se era il povero marito ad essere noioso come la morte, o lei ad essere tremendamente rompiballe.
Lasciamo stare i problemi di coppia e torniamo alle nostre spiagge: se amate camminare, c’è un bellissimo sentiero che parte proprio da Cala Pisana e arriva a Cala Maluk: ci metterete il doppio del tempo necessario a percorrerlo (circa 4 km), perché nell’ordine vi fermerete a: 1) fotografare il panorama; 2) fotografare i riflessi sull’acqua 3) fotografare le grotte 4) fotografare Punta Sottile 5) fotografare gli aerei che atterrano e decollano a poca distanza da voi 6) rifotografare l’acqua perché guarda qui che colore incredibile 6) vedi punto 1 e ricomincia.
Finché la barca va
Andare a Lampedusa e non circumnavigare l’isola è come mangiare una piadina bevendo acqua minerale al posto di Sangiovese o birra artigianale: un’esperienza a metà. Capire questo scoglio guardandolo solo da terra, è impossibile, e non importa se non siete provetti nuotatori: vale la pena uscire in barca anche solo per vedere le mura poderose dell’isola, fatte di rocce vertiginose che si tuffano nel mare, e le grotte con i fondali blu notte e gli scogli striati di viola.
Per trovare una barca, avete solo l’imbarazzo della scelta: potete affittare un motoscafo e girare l’isola in autonomia, oppure prendere una delle tantissime barche turistiche che trovate al porto, ancorate una dietro l’altra. Ce ne sono per tutti i gusti, più grandi, più piccole, con pranzo a bordo, con animazione stile Nave del Sole, senza animazione stile Mi Piace Navigare E Basta. Sei anni dopo, sono andata decisa a ritrovare LA Daka, la barchina a motore che presi nel lontano 2011. Piccola, con massimo una decina di ospiti, e una tartarughina gialla e rossa disegnata sulla cabina di pilotaggio. Avevo un ricordo bellissimo di quella giornata: noi quattro spaparanzati a bordo, il capitano che cucinava pesce buonissimo, vino bianco e soprattutto limoncello a fiumi. Ricordo un dialogo surreale con una skipper, mai vista prima e che al secondo limoncello parlava con me come se fossi stata una vecchia amica. Aveva da poco un nuovo compagno, skipper come lei, e “sono sicura che questa è la volta buona”. Io oscillavo fra onde di Limoncello: “Guarda, sono contentissima per te, è una figata (sì, dissi proprio “figata” tipo sedicenne tamarra, pur avendo abbondantemente passato i trenta) è una figata quando si sta bene in due”. Al quarto bicchiere, di fronte alle rocce verdi e viola di Cala Sacramento, ci siamo buttate in acqua, lei ovviamente nuotatrice provetta, io che in acqua chiamo a raccolta tutti i santi del paradiso per non andare sotto (per la cronaca: la daka ha giubbotti per tutti..). L’ultimo pensiero, lucidissimo, fu: “Mal che vada, se affogo, affogo felice”. Chissà dove sarà oggi la skipper del limoncello. Io spero tanto che stia solcando i sette mari col suo compagno skipper anche lui. Quanto a me, non sono affogata e sei anni dopo ho ripreso La Daka. C’era ancora lo stesso capitano, lo stesso pranzo squisito, e ovviamente il limoncello a fiumi. È stata una gita fra amici, alla fine: una coppia di Palermo ci ha raccontato della sua città, una ragazza hostess di volo parlava del suo lavoro con gli occhi che brillavano (e tutta la mia più fetida invidia), un signore e la moglie raccontavano i loro viaggi fatti in gioventù. Il tutto fra tuffi, mare, cielo e un panorama mozzafiato. A fine giornata, i bei ricordi legati a La Daka, da uno sono diventati due. Adesso, spero nel terzo.
CAPITOLO IV
ARTE E STORIA A LAMPEDUSA
Se pensate che Lampedusa sia solo un posto di mare, natura, paesaggi e delizie gastronomiche, vi sbagliate… questo scoglio ha più storia di quanta immaginiate: i Romani la popolarono in tempi antichissimi per produrci una salsina a base di pesce (per i loro crostini, deduco), e Ludovico Ariosto ambientò qui una delle pagine più belle del suo Orlando Furioso. Oggi, anche se il tempo e la mano dell’uomo hanno cancellato tanto, ci sono rimaste tracce per un percorso interessante e – guarda caso – atipico, ideale per chi, a Lampedusa, vuole essere viaggiatore prima che turista. I tre siti che vi propongo, vedrete, raccontano tanto del cuore di Lampedusa.
Chiesa di San Gerlando
Lettura
consigliata
È la parrocchia di Lampedusa: forse qualcuno di voi la ricorda per averla vista in televisione, in occasione della visita Papale del 2013. Si trova proprio all’inizio di Via Roma, con davanti un giardino che sembra un frammento di deserto nordafricano caduto lì, fra case e vie, e frotte di bambini che giocano a palla. La chiesa è moderna, svetta con le sue pareti color ocra fra le case bianche e squadrate, e sembra fatta anch’essa della sabbia e della roccia dell’isola. Mi ricorda, ogni volta, la copertina di un libro di racconti di Buzzati. Visitatela, per capire il legame indissolubile di Lampedusa con il mare, che è vita e morte strette in un abbraccio indissolubile. Il Gesù crocefisso che vedrete all’interno, è un Gesù marinaio, o viandante del mare: non è inchiodato a comuni assi di legno, ma il suo patibolo è fatto di remi. Remi intrecciati strettamente, e in cui sono conficcati i chiodi che lo trafiggono.
Vicino alla porta d’ingresso, a sinistra, una teca di vetro ospita una piccola scultura: raffigura Giuseppe, Maria e il Bambino, seduti su una barca in mezzo al mare. Tendono le mani a un uomo di colore, con un giubbotto arancione di salvataggio, che sta affogando in balia di onde blu. Dice tanto dello spirito di questa isola, più di mille parole.
Madonna di Porto Salvo
Anche Lampedusa ha il suo Santuario: un luogo di pace assoluta, dove le voci delle spiagge non arrivano. Qui, davvero, sembra di essere in un altro modo, anzi… altri mondi. La chiesetta è semplicissima, colorata di bianco e azzurro, e spicca fra il verde della macchia mediterranea. Si sente profumo di Grecia. Tutto intorno, una serie di grotte naturali , e per qualche motivo il pensiero mi è corso immediatamente alle grotte – molto più grandi, sia ben chiaro – che circondano Matera. Leggenda mescolata a storia vuole che qui, nei secoli passati, vivesse un eremita che permetteva a turchi e cristiani di pregare insieme, e avere buon vento e mare propizio, perché in mare, siamo tutti uguali. Se la Spiaggia dei Conigli è la piscina di Dio, qui – che ci crediate o no fa lo stesso – sentirete il suo respiro.
Porta d’Europa
Se cercate su internet, vedrete che questo monumento – una porta di forma rettangolare, aperta nel mezzo, color giallo paglierino – vedrete dunque che questo monumento è definito un “omaggio ai migranti” e quindi – per come la vedo io – un omaggio all’Uomo, e ai flussi che hanno sempre caratterizzato la sua storia. Non ci sono insegne, ma dal porto la vedete benissimo: si trova sulla punta dell’isola vicino all’aeroporto, a destra di Cala Maluk, sopra un promontorio spettacolare. Ad alcuni piace, altri la trovano sinceramente bruttina. Al di là del valore artistico, c’è il suo significato.
Proprio di fianco, un vecchio bunker della seconda guerra mondiale, ormai in rovina. Peccato. Se qualche lampedusano mi legge, ecco, sarebbe bello recuperarlo.
CAPITOLO V
LAMPEDUSA E LA SUA GENTE
Togli a Lampedusa la sua gente, e diventa un’isola come tante altre. Non è vero, sto esagerando, ma i lampedusani sono l’anima forte di questo luogo. Sanno di vivere in un posto che per noi è un paradiso, e vi parleranno con amore della loro terra di confine, ma proprio come chi ama davvero conosce bene i difetti dell’altra persona, anche loro non vi nasconderanno i difetti della loro isola, e del fatto che vivere nel mezzo del Mediterraneo, in un paradiso di 20 km quadrati, 365 giorni l’anno, non è sempre la cosa più semplice del mondo. Io stessa l’ho sperimentato: un problema banale come un orecchio otturato, è risultato irrisolvibile in due settimane; lo specialista è presente sull’isola solo un giorno, per poche ore, il pronto soccorso non è attrezzato, e – morale della favola – sono stata per quasi tutta la vacanza con un orecchio fuori uso. Nulla di insopportabile, per carità (ripetevo solo “eeh?” al barista del bar dell’Amicizia che mi chiedeva se volevo il cannolo classico o coi pistacchi), ma loro tutti i giorni devono fare i conti con problemi di questo tipo, e il mio problema, ripeto, era una sciocchezza. Non è poco, così come non è da poco fare i conti con l’isolamento. È gente che non si perde d’animo, e queste tre brevi storie ve lo dimostreranno.
Daniele e l’inventiva del lavoro
Lettura
consigliata
Come vi dicevo, nelle due settimane centrali di Ferragosto, l’isola è invasa: l’invasore tipico parla con forte accento bergamasco, ha in tasca un biglietto aereo Volotea, un tubetto di protezione 50 nel trolley, figli e moglie al seguito, quest’ultima già in via di incazzatura per caldo/code/bambini/stress/marito-che-non-aiuta. In certe ore del giorno, trovare spazio per piantare un ombrellone ai Conigli, può essere un’impresa che mette a dura prova il sistema nervoso di felici famigliole e coppiette innamorate (ho visto cose che voi umani…). Per questo, zainetto in spalla, ci siamo gettati nella disperata impresa di scovare un angolino non dico deserto (non puoi pretendere il deserto a ferragosto, suvvia), ma con un numero di persone accettabile e la possibilità di sedersi senza necessariamente urtare una chiappa sudata altrui. Siamo stati esploratori fortunati: dopo Cala Pisana, inerpicando la nostra polverosissima Opel Meriva priva di tergicristalli in un acciottolato sentiero tutto sassi, un’insegna bianca tipo di miraggio nel deserto, indicava “Cala dell’Uccello”, con tanto di volatile stilizzato. Mollata con sollievo la macchina, guardiamo sotto di noi: c’è una spaccatura della terra, lunga e stretta, con due costoni di roccia ai lati, e una ripida scaletta scolpita nella sabbia. In fondo, le rocce sono coperte di sabbia, e compaiono paradisiache – per noi romagnoli poco abituati ai sassi– visioni di lettini e ombrelloni arancioni. In alto, una capannina di paglia, da cui ci viene incontro un bel ragazzo, moro, abbronzatissimo, sorridente. È così che conosciamo Daniele: ventidue anni, isolano, fidanzato con Federica, anche lei abbronzatissima e sorridente. Affittiamo ombrellone e lettini. Alla capannina di paglia si può prendere birra fresca. A metà pomeriggio, Daniele e Federica scendono fra gli ombrelloni e distribuiscono spiedini di frutta, o crostini. Il fondale della cala è molto bello, pieno di pesci e piante di Posidonia. I turisti sono pochi, silenziosi, educati. Questo angolino di paradiso – per me lo è stato eccome – lo ha creato lui, Daniele. Che ci ha raccontato di come vivere sull’isola 365 giorni l’anno sia bello, per carità, bellissimo, ma con prospettive per i giovani pari a zero. “E allora – ci ha spiegato col suo accento siciliano – se il lavoro non c’è, me lo sono inventato”. Alla faccia della Fornero e dei giovani “choosy”, Daniele ha passato l’inverno intero a ripulire la spiaggia con le sue mani dai detriti delle mareggiate, ha chiesto i permessi, ha comprato una decina di lettini e ombrelloni usati, costruito la capannina, piantato l’insegna e iniziato a lavorare. Federica è lì con lui, vi serve la birra, vi accoglie con il sorriso fresco dei vent’anni e gli occhi di chi ha un mondo davanti e se lo sta costruendo. Ora, il posto è delizioso, da bere c’è, l’acqua è bella e loro sono simpaticissimi. Non so a voi, ma a me non serve altro.
Antonio Lo Vasco. Condoglianze, case editrici
Nelle sere d’estate, quasi alla fine di Via Roma, dove il passeggio si dirada e iniziano a intravedersi le luci riflesse sulla tavola scura del mare, c’è il banchetto di Antonio Lo Vasco: da lontano sembra un banchetto come i tanti che affollano il viale e vendono ricordini, calamite, braccialetti, oggetti di artigianato. Avvicinandosi, si scopre però che il prodotto sul banco è di tipo cartaceo. Antonio vende libri, e libri scritti da lui. Rilegati benissimo, editi da “Io Edizioni”, che è ovviamente sempre lui: Antonio Lo Vasco è infatti nello stesso tempo scrittore, editore, venditore. Fa tutto da solo, lo fa bene, e gira per le spiagge a vendere i suoi libri, oppure allestisce la bancarella in Via Roma. Insomma, dallo scrittore al consumatore. Ho sfogliato qualche pagina di un romanzo, “Condoglianze…signora” – il titolo, mi spiega Antonio, riprende il saluto del mafioso alla vedova dell’uomo da lui stesso ucciso – mi è parso scritto benino, l’ho comprato. Morale della favola? Finito in due giorni secchi fra aereo e treno. Avvincente, ti incolla alla pagina. Meriterebbe di diventare uno sceneggiato in RAI, perché non ha niente da invidiare a opere ben più blasonate che affollano le librerie. Quindi il mio consiglio è: comprate un libro da Antonio, poi andate da Daniele, prendete lettino ombrellone e birretta e… buona lettura.
Rochi e Andrea: You got a friend
Siamo quasi a fine vacanza: è una giornata – tanto per cambiare – assolata, soffia un forte vento di Maestrale, sul blu del mare si susseguono creste bianche. Quando il tempo è così, Mar Morto è l’ideale, perché riparata dal promontorio: il vento si sente meno, e l’acqua è calmissima, sempre. Lasciamo turisti ignari a insabbiarsi sulle altre spiagge, troviamo uno scoglio piatto e ci piazziamo lì, con teli, borse e ombrellone – che cadrà in acqua un nanosecondo dopo, ma questa è un’altra storia. Io, con il mio orecchio tappato e ronzante, sento solo la metà di quello che succede attorno, così mi isolo fra gli enigmi della settimana enigmistica.
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Passano pochi minuti e un signore anziano, maglietta calzoncini cappello e zainetto, scende lungo gli scogli: sembra che cerchi qualcuno, parla ma – grazie al mio audio poco stereofonico – non sento praticamente niente. Si siede su uno scoglio, brontola qualcosa tipo “Tutte le volte la stessa storia….”. E qui, faccio un pensiero di cui mi vergogno, uno di quei pensieri tipici da città: “Ecco il solito matto che parla da solo”. Mi rituffo nel cruciverba, il tizio continua a brontolare fra sé e sé. Non ci faccio più caso, fino a quando improvvisamente compare fra gli scogli un cagnolino: è un meticcio color caffè, col musetto che ricorda vagamento quello di uno spinone. “Ecco dove ti eri cacciato! Ogni volta mi fai stare in pensiero, guarda che non ti porto più!”. Il signore anziano lo sgrida poco convinto, come un genitore che sgrida il figlio ritardatario ma è felice di vederlo arrivare. A quei rimproveri bonari, il cane color caffè risponde scodinzolando e…ululando. Il padrone parla e lui risponde, letteralmente. La scena non passa inosservata, altri bagnanti guardano, sorridono a questo insolito dialogo a due fra cane e uomo. È così che inizia un piccolo show: “Sapete che il mio cane canta?” Sguardi un po’ scettici. “Non ci credete? Fai sentire, Rochi!”. Il signore anziano intona una canzone, e Rochi duetta con lui. Sono uno spettacolo dolcissimo. A., l’amica con cui sono in vacanza, attacca bottone. E il signore – che scopriamo chiamarsi Andrea – non aspetta altro: racconta che è solo, e Rochi è il suo unico affetto (dice proprio così, unico). Che qualche mese prima, durante un viaggio in Toscana, il cane era sceso dal treno e lo aveva perso, e che grazie ai volontari l’aveva ritrovato per miracolo (n.b. se digitate su internet “Rochi ritrovato” leggerete tutta la storia con le immagini dell’incontro). Dice che abbiamo fatto bene ad andare a Mar Morto, perché sulle altre soffia troppo vento e che i calamari ripieni di Martorana sono il suo piatto preferito (li ho scoperti grazie a lui). Insomma, ci racconta un po’ tutto quello che gli salta per la testa, compresa una serie lunghissima di barzellette demenziali. Ci chiede se ci piace l’isola, e quando gli diciamo “Moltissimo!” sorride orgoglioso. Lui è nato e vissuto lì e fa il pastore, nell’estrema punta vicino a Capo Grecale. Ora, Andrea e Rochi non li trovate su facebook e se volete stringere amicizia con loro, e sentire le barzellette che Andrea vi sparerà a raffica (più che barzellette, freddure…) non basta fare click: andate a Lampedusa, sperate di incontrarli, passateci del tempo. E se avete modo, portategli un piatto di calamari da parte mia. Io, vi giuro, lo farò.
PS Sapete perché i tennisti ridono sempre? Perché fanno tante battute!
CAPITOLO VI
LINOSA: IL PARADISO ALLA FINE DEL MONDO
C’è una vecchia canzone di Sheryl Crow (ricordate? La cantante americana molto figa che stava col ciclista Armstrong) che si intitola “My favourite mistake”, “Il mio errore preferito”. Lei lo riferiva a un ex, io faccio l’originale e lo riferisco a un’isola. Linosa è proprio questo, il mio errore preferito, perché ogni volta faccio lo sbaglio di starci solo un giorno, raggiungendola con l’aliscafo, mentre Linosa meriterebbe lo stesso tempo di permanenza di Lampedusa. E invece rimane sempre un po’ defilata, schiacciata dalla fama della sorella maggiore.
Linosa è Lampedusa nella casa degli specchi: mentre Lampedusa è roccia bianca, Linosa è nera di polvere vulcanica e verde di macchia mediterranea. Mentre Lampedusa ha case bianche, Linosa è un tripudio di giallo, rosso, blu, azzurro. Tutte le casette del paese sono colorate, anche i gradini, come il villaggio di un bambino costruito coi Lego. Ci sono palme, fichi d’india, capperi, fiori bellissimi. Soprattutto, anche ad agosto, non c’è ressa. Non avrete problemi per piantare il vostro ombrellone, non dovrete sgomitare col vicino per un rettangolo di spazio vitale, non vi troverete tutti quanti a mollo uno di fianco all’altro come asparagi in una pentola. Avrete, insomma, pace anche nel periodo più fetido dell’anno per andare in ferie, perché nonostante Linosa sia più vicina alla Sicilia rispetto alla sorella maggiore, qui la sensazione di trovarsi “alla fine del mondo” è molto, molto più intensa.
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Girare Linosa è semplicissimo: arrivate in paese, affittate un mezzo (quod, scooter o macchina, niente mehari qui), e prendete una mappa dell’isola all’ufficio turistico – lo trovate in fondo alla strada principale, a destra del comune. Proprio qui ho trovato un impiegato gentilissimo, linosano di nascita e innamorato della sua piccola isola: vedendo che venivamo da Lampedusa (come il 100% dei turisti giornalieri) ci ha consigliato di lasciar perdere, per un giorno, i tuffi in mare. Non perché non meriti – il mare di Linosa è blu cobalto, nero dove è più profondo, striato di bianco e turchese – ma perché, se si è un minimo amanti del trekking, l’isola coi suoi coni vulcanici offre sentieri bellissimi e mozzafiato… mozzafiato in tutti i sensi, soprattutto dopo pranzo.
Ma andiamo con ordine: salite con me sullo scooter virtuale e tenetevi forte, si parte alla scoperta dell’isola.
Girare Linosa motorizzati è piuttosto semplice: la strada segue il contorno circolare dell’isola, e non è per nulla trafficata, anzi, fra un punto d’interesse e l’altro, vi ritroverete spesso soli, circondati dal soffio del vento e dal rumore del motore. Nient’altro.
La prima tappa è alla spiaggia Pozzolana di Ponente: l’unica sabbiosa dell’isola, una perla nera circondata da una collana di acque turchesi. Poco distante, in caso di fame (ma siamo appena partiti!) poco distante c’è un chiosco in legno bianco, che si chiama – guarda caso – Black Planet.
Torniamo indietro e proseguiamo verso l’interno piegando alla nostra sinistra: attraversiamo l’isola, le sue distese di verde, le piante bellissime di fico d’india e cappero, e arriviamo alla Piscina Naturale: qui, fra rocce vulcaniche, si apre una – appunto – piscina rotondeggiante, con acque di cristallo, dove immergersi e – per i più temerari, quindi non per me – raggiungere il mare aperto percorrendo un tunnel in apnea. Rocce e acque duellano in quanto a intensità di colori, e quando il mare è mosso si può sentire il rumore dell’acqua che si incastra furibonda sotto di noi.
Fatto qualche tuffo, risaliamo in motorino e proseguiamo per i Faraglioni di Linosa: una mezzaluna di sabbia nera (e bruciante!) circondata da scogli neri e bitorzoluti e acque di smeraldo: dalla cima soprastante, in una giornata dove il sole si alterna a nuvole bianche e gonfie, il gioco dei colori che cambiano è magico.
Possiamo fermarci in questa laguna a fare snorkeling, oppure proseguire alla scoperta dell’isola: scegliamo la seconda opzione, proseguiamo sulla trafficatissima (come no) strada, e arriviamo alla sua fine: la strada si interrompe infatti contro un costone di roccia nera stratificata. Nelle giornate limpide d’estate, il contrasto col cielo è formidabile, tanto da dare, all’occhio, quasi l’effetto di un fotomontaggio. Siamo a Punta Calcarella. Un sentiero scende verso il mare, fra fichi d’india e macchia mediterranea. Non c’è nessuno, il silenzio è assoluto, interrotto solo dalle cicale. Sulla collina di fronte, i resti di una sorta di Club Med abbandonato, ci ricordano i fasti anni ottanta dell’isola, quando era una meta trendy, poi dimenticata.
Torniamo in Paese, riattraversando l’isola: è ora di pranzo, e si impone una sosta alla deliziosa Trattoria da Anna, con la sua bella terrazza fiorita: mezzo chilo di spaghetti con sugo alla paesana, calamari arrosto di secondo, vino bianco e dolce. Dopo un pranzo così, l’ideale sarebbe una pennichella (meglio: una ronfata colossale). Invece, ci accarezza l’idea di seguire il consiglio datoci all’ufficio turistico, lasciare perdere spiagge e mare e… avventurarsi in uno dei bellissimi sentieri di trekking vulcanico, rigorosamente in salita.
Scegliamo il sentiero del Monte Rosso, non il più alto dell’isola (i suoi 186 metri sono superati dai 195 del Monte Vulcano, mentre il Monte Nero è il più piccolo, con 107), ma il più ripido. L’insegna indica un ‘ora di cammino, ma di buon passo e con scarpe rigorosamente adatte (il terreno vulcanico è un po’ sdrucciolevole) ci si mette anche meno. Dall’alto, la vista è incomparabile e ci si sente, letteralmente, al centro del Mediterraneo: l’occhio spazia sui crateri vulcanici, sulla casa bianca del faro, sulla costa frastagliata, sulle vele bianche delle barche che punteggiano il blu. Con un po’ di prudenza, si può entrare nel rudere che si trova sulla sommità e che risale alla seconda guerra mondiale. Da evitare, però, la salita al secondo piano, è pericolante.
Il tempo vola, è ora di tornare: affrontiamo a palla la discesa, schizziamo in sella allo scooter, e in un attimo siamo in Paese. L’aliscafo parte alle sei e tre quarti, c’è ancora il tempo per un favoloso estratto di frutta spremuta al momento in un negozietto sulla via principale, e l’obbligatorio acquisto di capperi e lenticchie, le specialità dell’isola. Ma lasciare Linosa mette un po’ di malinconia: al tramonto, in tutta l’isola risuona il lamento della berta di mare, l’uccello autoctono che passa tutto il giorno in mare, e rientra alla sera per sfamare i piccoli. La leggenda vuole che il suo verso straziante sia il pianto degli antichi guerrieri greci morti in battaglia. Partire, significa perdersi questo spettacolo naturale unico al mondo, oltre al cielo stellato che – immagino – si possa vedere al centro dell’isola, senza altre fonti di luce, e a tutti i sentieri di trekking non fatti. Posso garantire che, la prossima volta, l’aliscafo del ritorno non mi vedrà. Non subito, almeno.
CAPITOLO VII
TURISTA PULITO, TURISTA GRADITO: QUALCHE AVVERTENZA PER UNA VACANZA A MISURA DI ISOLE
Lampedusa e Linosa sono due posti unici al mondo, per mare, natura, biodiversità. Siamo sinceri, se fossero piazzati all’altro capo del mondo, tipo dalle parti di Tonga, a 24 ore di volo, ne rimarremmo estasiati. Invece, col fatto che si trovano a sole due ore scarse ina aereo dal norditalia, non dico che tendiamo a snobbarle, ma sicuramente a sottovalutarle e, lo dico a malincuore, a trattarle con poco rispetto.
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Prendiamo, ad esempio, la Spiaggia dei Conigli: forse lo avrete anche letto, che è stata votata su Tripadvisor, qualche anno fa, come la spiaggia più bella del mondo. Ora, voti o non voti, è magnifica, e sarebbe bello che rimanesse la spiaggia dei Conigli e non dei Suini. Suini a due zampe, per intenderci. Ho personalmente raccolto decine di mozziconi di sigaretta furbescamente (sic) occultati nella sabbia, per non parlare dei tappi di birra. Una ragazza volontaria di Legambiente, che presidia la spiaggia 24 ore su 24 e che la sera passa, insieme ad altri volontari, armata di retino a ripulire tutto, mi ha detto, con aria sconsolata: “Noi distribuiamo posacenere gratuitamente, di quelli portatili, che si chiudono, ma non c’è verso. La gente butta comunque le cicche in spiaggia. E poi c’è chi ci scambia per la nettezza urbana, viene da noi e lascia il sacchetto con gli avanzi del pranzo. Così dobbiamo spiegargli che l’immondizia non va lasciata a noi, ma riportata su, dove ci sono i bidoni e dove passano a raccoglierla. Questa cosa gli scoccia da morire”.
Ecco, a me scoccia da morire, invece, che gente come questa venga a lordare uno dei posti più belli del mondo, per poi magari tornarsene a casa e dire che sì, questi spiaggia dei Conigli, carina ma – oh- c’era uno sporco che non ti dico. La stessa gente che poi si lamenta perché l’isola è piena di pattume.
È inutile nasconderlo: in piena estate, la gestione dell’immondizia a Lampedusa diventa problematica. Nella stessa Via Roma, sono pochissimi i bidoni dei rifiuti. Cerchiamo di non aggravare la situazione: non buttiamo l’immondizia fuori dai cassonetti, se siamo in spiaggia e vediamo rifiuti lasciati da altri (bottigliette di plastica, principalmente, e mozziconi di sigaretta) non facciamo gli schizzinosi e raccogliamoli. Faremo un favore a noi stessi, all’ambiente e a chi viene dopo di noi.
Non dimentichiamo, poi, di andare a visitare i centri di recupero delle tartarughe “Caretta Caretta”, sia a Lampedusa che a Linosa: vedremo il lavoro dei volontari, scopriremo la storia delle tartarughine (e “rugone”, ce ne sono alcune poderose) salvate, e scopriremo il magico mondo dell’impatto ambientale della plastica. Sono sicura che, al ritorno a casa, ricicleremo con molta più consapevolezza. A Lampedusa, il centro si trova in Contrada Grecale, non lontano dall’attracco aliscafi, mentre a Linosa, è situato proprio accanto alla spiaggia nera, a pochi passi dal Black Planet.
Un’ultima notazione per l’altro animale simbolo dell’isola: il cane. A Lampedusa ce ne sono molti, dolcissimi: in Via Roma, è impossibile non allungargli un bocconcino prelibato. Li vedrete anche in spiaggia, girare mansueti e – talvolta – assetati. Non negategli crocchette e una ciotola d’acqua, e se potete, parlate con i volontari della Onlus Il Cuore ha Quattro Zampe. Anche una piccola offerta sarà di grande aiuto.
Se poi, non riuscite a fare nessuna di queste cose – se quindi continuerete a buttare mozziconi in spiaggia, e sacchi di immondizia in giro, se non ve ne frega nulla delle tartarughe e del mare e scostate schifati quegli ammassi di pulci a quattro zampe che vi rovinano la cena, allora vi do un consiglio: buttate subito nel bidone questa guida ed evitate di andare a Lampedusa o Linosa. Evitate di andare un po’ da qualsiasi parte e fate la cosa più logica di tutte: state a casa. Io – potete giurarci – ve ne sarò grata, immensamente.
E PER FINIRE… QUELLI CHE.
Sono tornata da poco più di un mese da Lampedusa, e ho potuto saggiare le varie reazioni di chi mi chiede dove ho passato le ferie. Devo dire la verità, la maggior parte dei commenti è stata positiva, andando dal “ci sono stato è bellissima” al “vorrei tanto andarci, speriamo il prossimo anno”. Siccome però le perle non mancano mai, ne ho fatta qui una piccola raccolta, parafrasando la ben nota canzone di Jannacci, che spero mi perdonerà. Giuro, le ho sentite tutte con le mie orecchie (stappate, finalmente)
Quelli che… a Lampedusa non ci vado è pieno di neri (che ti fanno “bu!” a ogni angolo di strada)
Quelli che… mi hanno detto che se ti immergi rischi di trovare un cadavere (sì, quello del tuo cervello quando hai proferito questa perla)
Quelli che… ad agosto c’è troppa gente io vado ai Caraibi (vuoi mettere la folla con un bell’uragano?)
Quelli che… ma la Sardegna è meglio (e quando sono in Sardegna: eh ma le Maldive…)
Quelli che… ma le Maldive sono meglio (e quando sono alle Maldive: ma vuoi mettere la nostra Sardegna?)
Quelli che… quest’isola è sporca (dissero buttando la sigaretta in spiaggia)
Quelli che… qui non c’è niente io vado a Formentera a farmi l’happy our al Chiringuito del Pineta (un vero VIP)
Ora, qualunque cosa abbiate sentito o sentirete su questi posti, qualsiasi idea vi siate fatti da lontano, l’unico consiglio che mi sento di darvi è questo: non ascoltate nessuno, nemmeno la sottoscritta, ma riempite la valigia con il minimo indispensabile e partite. Sarà un viaggio alla scoperta di un angolo d’Italia inaspettato, di gente vicina eppure lontanissima, e soprattutto, come in ogni viaggio che si rispetti, avrete scoperto qualcosa di nuovo anche di voi stessi. E questo, alla fine, è ciò che conta davvero.
I Capitoli di Piadina a Lampedusa (e Sangiovese a Linosa) – Guida atipica di Lampedusa scritta da una romagnola che ci ha lasciato il cuore:
- RAPIDO FLASHBACK – LAMPEDUSA 2011
- IL KIT DEL VIAGGIATORE: COSA PORTARE, COSA LASCIARE, COME GIRARE, COME COMPORTARSI
- A SPASSO (E A NUOTO) PER L’ISOLA
- ARTE E STORIA A LAMPEDUSA
- LAMPEDUSA E LA SUA GENTE
- LINOSA: IL PARADISO ALLA FINE DEL MONDO
- TURISTA PULITO, TURISTA GRADITO: QUALCHE AVVERTENZA PER UNA VACANZA A MISURA DI ISOLE
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